Riuscì a catturare vascelli nelle acque più lontane, visitò i mari e le isole più segrete, rimase a lungo sotto l’incanto delle Encantadas, e finalmente esalò valorosamente l’anima, combattendo contro due fregate inglesi nel porto di Valparaiso. (La fregata e il vascello fantasma, Melville)

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Primo bozzetto: Dice che ci vuole il senso della misura, tre aghi di differenti grandezze, una stoffa ruvida di colore bianco sporco. Se hai paura di nuotare nell’acqua alta non puoi sentire il pavimento vuoto sotto i tuoi piedi, non puoi guardare i metri e metri di verde blu luce che separano le tue unghie dal fondale. A me piace quel cubo fatto di acqua, mi piace sapere che lo spazio fra i miei piedi e il fondo è immenso. In mare mi piace sentirmi piccola, mi piace essere considerata niente. Alga, mollusco, guscio.
Secondo bozzetto: Dice che devi andarci con qualcuno del posto, qualcuno in grado di parlare la loro lingua dura. Non devi pensare ai buchi nelle case e ai cartelli con la scritta –attenzione, mine antiuomo-, devi fare finta di niente e perderti nella zona turca. Così piena, così profumata. Così colma di distrazioni. (non è vero, lei non dice la verità). Colmo, pieno, vivo. Odio usare queste parole, mi ricordano quei quadernini così pieni di buoni sentimenti, qualcosa di pubblicabile a puntate. Nulla dovrebbe essere pubblicato a puntate. Dovrebbero vendere libri da portare sulla schiena, il peso delle loro pagine dovrebbe essere ostacolo. La gente dovrebbe uscire dalle librerie distrutta, dovrebbe trascinarsi in casa con un peso gioioso al centro del petto. Dovrebbe pensare per giorni e giorni alla fatica di aprire un nuovo libro. Alla responsabilità di entrare in una storia. ( non è vero, lei non dice la verità). Lui mi ha detto che suo fratello è stato ucciso e il suo corpo riconsegnato alla famiglia dieci anni dopo. È dovuto correre a Sarajevo per fare gli esami, per il riconoscimento. Era suo fratello gemello. Però lui era più attaccato a me, io non ci volevo un gran bene. Era venuto a Milano ed era scappato dopo due settimane, dopo pochi giorni è stato preso da un cecchino. La sua vita era là. E adesso? E adesso? Adesso ci sono tutte queste vecchine che mi insultano con gli occhi e questi posti bellissimi, con la pietra fatta di materia lunare e i ponti che portano dove tu vuoi. Sono stati bravi a costruire i ponti, qui. Hanno dato una partenza comune, ma l’arrivo è sempre inventato. Da una parte all’altra della città ho già fatto il giro del mondo. Guardami, mamma, guardami bene. Adesso sono in una viuzza di un qualsiasi paesino croato. Quasi banale. Ci sono le bandierine rosse e bianche, e tutti questi turisti felici con i panini in mano. Guardami adesso, sono nella zona musulmana. È tutto giallo, bianco, rumoroso. Lo so, sei come me. Ti piace la zona azzurra, quanta fatica per entrare nella zona azzurra, mamma. Non mi vogliono proprio far vedere le loro case rocciose, fanno di tutto per spingermi via. Non ci riescono mai. (lo sai, amo quella gente con la forza di certi pregiudizi al contrario. È amore bambino, forse sciocco).
Terzo bozzetto: Non te ne parlerò mai. Ti dirò solo che quando parla lo capisco poco. Ha una pessima pronuncia francese, e io mi ostino a non imparare l’inglese. Dice oui in modo secco. Nessuno al mondo ha mai detto oui in modo così rigido. Quando lo dice sono mitra caricati di sale. Ha gli occhi verdissimi e un conto in sospeso con la Serbia. Dice che non ne vuole parlare ma ogni tanto l’argomento esce da solo. Allora inizia a fare nomi di politici locali, colonnelli, gente morta nell’indifferenza del nostro paese. Io provo a ricordare quei nomi,a memorizzare. Poi lui mi dice che non conta niente e inizia a parlare dei campi dietro casa sua, delle turiste slovene, dei dolci tradizionali. Corre fortissimo e conosce pezzi di spiaggia che ancora non ha mai visto nessuno. Nessuno tranne lui.
Quarto bozzetto: Nella curva che porta al market Konzum ci sono dei ganci. Ti devi aggrappare lì, ai ferri tondi che spuntano dal prato, dall’aiuola. Lo capisci dopo, dopo essere stata spinta dalla bora. Lo capisci dopo aver fatto due passi due dritta nella strada, in curva. Allora quelle –chiamiamole asole, fammi un favore- non ti sembrano più sculture. Ci devi mettere le mani, ti ci devi aggrappare. Dice che in inverno su quel ponte le macchine vengono ribaltate dal vento. In estate no, solo le persone. Nell’alfabeto glagolitico la mia iniziale ha la forma di un omino senza senza testa, mani e gambe aperte. Mislete, in antico slavo, è una parola bellissima. La esse invece ha la forma di albero, slovo, slovo. Ot, è una pallina da tennis. Gli uscocchi erano guerrieri meravigliosi. Se leggi la loro storia inizi a volerci un gran bene, inizi a tifare per loro, lassù a Senj, circondati dal vento. Colpiti da quegli egoisti dei veneziani, da tutti quei turchi. Minuccio dice: Sembra che venti, mare e il diavolo stesso erano i loro complici. Nessuno poteva battere gli uscocchi nelle loro terre. Da wiki: Un tipico esempio lo si poteva osservare di frequente fino a non molti anni fa al Villaggio del Pescatore, nel comune di Duino Aurisina (TS), area sensibile alle invasioni dei corsari durante tutto il XVI secolo: nelle notti più serene, al sorgere di Betelgeuse, si esorcizzava l’arrivo dei pirati (evidentemente artefici di una notevole razzia proprio in concomitanza col sorgere dell’astro di Orione) accendendo quattro grandi torce, che venivano portate per le strade del paese urlando proprio il nome dei corsari di Segna. Come molte tradizioni popolari anche questa è andata in disuso; tuttavia ancora oggi è possibile sentire urlare il nome degli Uscocchi in sporadiche occasioni, anche se le luci delle torce sono state sostituite da quelle dei fari delle automobili o delle pile elettriche. Durante l’impresa di Fiume, Gabriele D’Annunzio inquadrò alcuni dei suoi uomini in veloci unità navali. Esse garantivano rifornimenti ai legionari di Ronchi (poi Ronchi dei Legionari) con azioni di razzia verso il naviglio straniero che incappava nelle loro incursioni. La fine cultura adriatica, vanto di D’Annunzio, battezzò anche questi uomini uscocchi, in ossequio ad una continuità ideale con i romantici corsari d’altri tempi. Quarto bozzetto: ho dormito in cima a un tetto. Non era mai successo.
Quinto bozzetto: Il Biokovo ti segue sempre. il gigante di pietra finisci col vederlo sempre. anche in spiaggia, anche dentro al mare. Il Biokovo è una grande linea infinita che percorre la spiaggia di 3 km, il passaggio pedonale, i campi da tennis, i campi da calcio, i bar, le bambine venditrici di conchiglie, le vecchiette venditrici di fichi e olio abbronzante. Tucepi è alberghi anni sessanta, tutto sembra nuovo eppure ha il sapore del vecchio. Gli ombrelloni sono incastrati nella roccia, se guardi bene, se guardi in alto. Sembra quasi casa.

 

5 settembre 2010

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Va bene, hai ragione. sei bianca, bianca con quelle sferzate di verde. quel verde che si vede solo in cima ai burroni, visto che in fondo quel verde si vede azzurro. Sei color vento. Però la tua valigia è sempre piena di rosso. Non è rossa, ma quando la apri esce sempre del rosso.

Ricordati le mutande, con te si finisce sempre in supermercati dell’est con gli accenti strani al reparto bambini. E poi ti prendi mutande orribili, con i bordi colorati. In realtà sogni solamente di rimanere chiusa dentro il supermercato. Di notte. Come in quei telefilm di merda, e sogni di parlare con le telecamere a circuito chiuso e di essere svegliata dall’uomo della sicurezza. signorina, signorina.(semi-cit.)

 

7 agosto 2010

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

d’accordo. L’undici luglio è il tuo compleanno. Non può darsi però che ti abbiano indicato una data falsa per… per depistarti? Può essere accaduto questo. Così come il padre di Lady Oscar voleva un figlio maschio e quando vide che non c’era niente di maschio nel cosino che sbraitava nella culla, subito lo avvolse in un mantellino da cavaliere, gli mise minicalzoni e una microgiubba militareschi, stivali con speroni e un cinturone da cui spuntava l’elsa del fioretto, un fiorettino non più lungo di uno stecchetto, i tuoi, che avrebbero voluto una bambina autunnale, ti colorarono delle tinte d’ottobre e… e ti insegnarono a nutrirti di bacche che maturano in ottobre e a profumare come la pioggia d’ottobre e la terra rivoltata in ottobre e le mele del trentino e a imitare lo zirlio del tordo d’ottobre e poi, sì, ti diedero anche il taglio d’occhi ottobrino. Si vede anche adesso che hai il taglio d’occhi autunnale insieme alle gote melinde. Perciò io mi confondo sempre e quando arriva luglio penso che potresti essere nata tu ma subito scaccio con sdegno il pensiero al ricordo dei tuoi capelli arborei sotto la cui coltre radicale crescono funghi e tartufi.

Mi risulta assurdamente naturale pensare che compi gli anni a ottobre. Ma, se anche il tuo pc è rotto e questo indirizzo di posta non conduce a te ma porta ad un capanno di bracconieri nella taiga, ti faccio i più innaturali auguri di luglio, ti stringo forte e accarezzo l’idea di rivederti un giorno per abbracciarti veramente

[Dalla lettera di Carlo]

Sono nata in luglio, solo in luglio. Non una volta di più. Ho detto a tutti di essere nata più volte. Dopo piccole morti invisibili ai più. Succede alle persone silenziose, quelle che non si lamentano mai e finiscono col fare i gavettoni con i polmoni quando si ricordano di respirare. così ogni volta si schiantano sui marciapiedi e si devono ricostruire nuove gambe, nuove mani, nuovi nomi. Mentivo. Mi chiamo sempre allo stesso modo, con un nome greco da fondazione di stirpe e da giardino paludoso. Non sono mai morta e sono sempre silenziosa. Fra tutti i nomi sceglierei di nuovo il mio. Sono nata in estate, non potevo nascere in altre stagioni. Non può succedere niente di male in estate. Non te lo posso promettere ma posso vederlo. Mi fecero nascere in estate per via di quei pomeriggi infiniti dell’infanzia, per via di quelle ore rallentate fino al tramonto, quelle ore che sanno di giochi senza fine e senza cena. Sapevano del mio bisogno di indolenza estiva fin dalla nascita, sapevano di questa mia urgenza, nutriente più del latte. Mi fecero nascere in estate per via dei bagni in mare, per via del colore bianco sulla pelle abbronzata, per via dei campeggi verso sera, della bicicletta azzurra con l’adesivo di creamy, della musica sul tagadà, dei tavoli da giardino in plastica, del senso di vuoto dopo l’ultimo giorno di scuola. Sapevano del mio bisogno di spazio bianco e azzurrino chiaro fra gli occhi, di luce piatta frantumata sui muri degli stabilimenti balneari. Sapevano della mia tendenza alla malinconia e alla santificazione del passato. Sono nata in luglio per una volontà precisa, per quel suo essere in mezzo. Fra le grandi partenze e le grandi aspettative. Le cose maturano in luglio, a giugno ci pensi, ad agosto forse le vivi, ma nel bel mezzo di luglio si sente il rumore della matita ben temperata sul foglio ruvido.

Le rivoluzioni migliori nascono in luglio, Lady Oscar lo sa. Nascono col caldo che goccia sui gomiti e sulle mani armate. ( agosto non è mai così caldo, agosto si esalta con la forza del nome *estate*, ma è un ruggito nato già stanco)

A pensarci bene, luglio, è anche il nome più bello da pronunciare. Tondo, di pompelmi e lamponi, cartoline con i saluti scritti a caratteri pieni. Non bugiardo, come giugno. Sono pur sempre estate, estate di granite imperfette, telefonate mute, lenzuola bianche in case dai muri spessi, ciabatte di gomma che sembrano  meduse ( con quel rumore di plastica sgniff sgniff), pirite nei capelli dei miei antenati, svenimenti, oh amore finalmente ci sei, ma io sbaglio sempre tutto, veramente vuoi rischiare?, sabbia fra le pagine dei libri, sabbia finita dentro i miei occhi. l’odore dei giornali è diverso in estate, colpa della crema solare che cancella gli articoli di stampa rosa, proprio l’impronta del pollice, sui lati. Ma non lo vedi come sono estate? Prova a dirlo, estate. Estate di balconi e repliche di film a tarda notte, estate di sms e frigorifero sempre aperto, latteementa, metatarso, lanzarote, gin lemon, Vietnam, marica, samoa.

26 luglio 2010

Svetlana, Agamennone,Euridice

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Le orchidee comprate nei supermercati erano destinate a morire. Nascevano già progettate per perdere fiori e foglie, avevano una data di scadenza conservata  in qualche immaginario biglietto scolorito. Dovevano avere la stessa temperatura per tutta la vita. La stessa quantità di luce filtrata dalla finestra, mai diretta. Le orchidee dei supermercati erano polli incartati, batterie, eserciti di soldatini in busta. Promettenti, ma con condizioni rigide. Nessuna casa poteva essere uguale. Aprivamo le porte e non trovavamo mai la stessa aria, lo stesso sapore. Talvolta odore di stufato, altre volte di chiuso, spesso di brodo. Non ci poteva mai succedere niente nelle case piene di brodo.

Le case che sapevano di brodo ci potevano sempre salvare.

Illustrai la mia teoria. Non mi ero potuta permettere i sandali verdi, quindi avevo quelli di pelle. Illustrai la mia teoria alle ore 16.32 di un soleggiato pomeriggio di luglio.

In luglio non mi poteva mai accadere niente di male.

Ero nel terrazzino con una bottiglia di minerale ghiacciata, schiumata di limone strizzato. Non avevo i sandali verdi lasciati in vetrina, ma ero felice comunque. Svetlana aveva perso quasi tutto e in un malinconico ultimo saluto, aveva fatto esplodere la sua ultima foglia rigonfiata di acqua. Pouuuuf. Aveva trattenuto l’acqua con rabbia, quando oramai i suoi fiori erano morti, quando io continuavo ad aggiungere acqua con puntualità tignosa. Svetlana mi aveva detto addio un mattino, schiacciando sui miei piedi una bolla di acqua marcia. Svetlana  veniva dal supermercato.

Agamennone ed Euridice erano state scelte nel vivaio più grande del mondo. Il vivaio più grande del mondo poteva ospitare tre castelli rosa e una piscina di rampicanti, quattro ascensori a specchio, una sauna per piante grasse e una galleria degli specchi per pappagalli.

Agamennone ed Euridice erano così belle da fare impallidire le altre centinaia di orchidee sui tavoli di legno.Agamennone era rosa, screziata di fucsia, ma potevi vederci anche una punta di zafferano. Euridice era bianca, ma potevi giurarci di vedere al centro dei semi rossi, delle bocche, dei denti, delle mani in preghiera.

Vennero posizionate in alto, sul mobile bianco del bagno. Così, a simulare le temperature umide della Thailandia.

I fiori più forti e complicati del mondo. I fiori più genitali del mondo. I fiori di carne.

Illustrai la mia teoria, lo feci tenendo premuto il tasto play del registratore blu cinese. Avvicinai la bocca al registratore.

Signori della giuria, in base ai miei taccuini e alle osservazioni scritte di mio pugno in tutte queste settimane di studio, posso dichiarare con certezza di aver visto le orchidee Agamennone ed Euridice spostarsi in loro autonomia, forse infastidite dalla presenza accecante dell’immenso lampadario di cristallo, posizionato a pochissima distanza dai loro fiori. Io posso dichiarare di aver visto i vasi muoversi di qualche centimetro e posso dire con assoluta certezza di aver visto le lampadine fulminarsi più volte, quasi spinte al suicidio dalle mie orchidee e dalla loro forza. Le lampadine che si sono fulminate sono esclusivamente quelle della parte sinistra del lampadario, ovvero, quelle più vicine alle orchidee.

Spensi il registratore, andai ad aprire la scatola di cartone che tenevo sotto al letto.

Quella dei sandali verdi.

 

 

[…]

Lo sposò di sabato. Le spose di sabato sono quelle che ti fanno vivere sempre in festa. Lui me lo diceva sempre. Lei aveva un vestito semplice e i capelli raccolti. Non si piaceva con i capelli raccolti, sembrava una rana, ma la sartina aveva tanto insistito. Di venerdì fece l’arrosto per la settimana dopo. Ci mise dentro più erbe del solito. Fece anche un mazzetto di erbe di campo da mettere sotto il vestito, il giorno del matrimonio.La signora Olga la presentò a tutti, la teneva sottobraccio e non la faceva mai allontanare. Lei camminava in simbiosi con la lunga gonna della signora Olga. Io me la immaginavo gambe all’aria, nel bel mezzo della sala. Con la signora Olga inginocchiata sulla sua pupilla.

Di notte lui si stendeva su di lei, aveva piedi sempre troppo freddi. Ma non solo. Sembravano bagnati, e lei provava a immaginare il loro odore. Niente di più sbagliato. Lui si lavava molto. E in bagno, stava ore a levarsi il muco dal naso spingendo forte, serrando prima una narice poi l’atra.

Si puliva bene anche le orecchie. Cosa che lei non faceva mai. Del resto, amava tenere sempre i capelli sciolti. Ogni tanto faticava a distinguere una seta dallo scorrere del suo cazzino. Le coperte le tenevano sempre in mezzo, le agitavano, le facevano muovere, mescolate ai loro urletti. Aveva un pene piccolissimo e con una sorta di uncino dorato in punta. Lei non lo aveva mai guardato, o aveva fatto finta di non guardare. Così lo immaginava. Lo immaginava decorato con una conchiglia in punta. Una piccola conchiglia bianca luccicante di sole. […]

Il loro figlio più piccolo, per qualche strano motivo, si rifiutò sempre di assaggiare il gelato.

 

 

[…]

Era stata abituata a essere la più brava, ma anche la più bella. Non solo. Era la più esotica. Per questo e per altri motivi ti guardava così lentamente.

 

Ogni tanto doveva controllare, per rassicurarsi il cuore, per mettere alla prova la costante esattezza delle sue premonizioni. Poi scriveva tutto in un quaderno bianco. Qualcuno avrebbe pagato per avere quel suo quaderno, qualcuno le avrebbe urlato: dannata! Tu sei una strega, una lurida strega e mi vuoi rovinare. Lei rideva. Piuttosto, segnava. Le sue premonizioni avevano poco di magico ed esoterico. Qualcosa di più vicino ai conti di una massaia, al lavoro di un ragioniere, al cammino di una formica fra altre mille. Preciso. Preciso.

 

 

Tutti quegli abbracci fitti, la posa indecorosa, il vestito elegante che sul tuo corpo si ribella. La cravatta larga dei venditori di auto usate. Le bandierine.

Si mise sul terrazzino, con le gambe nude e la ciotola di piselli da sgranare. Come quando era vivo lui. Quando vinse l’italia  lui si ubriacò e fece fatica a salire le scale. Le cose speciali del giorno undici luglio. Del minuto undici. […]

Dite pure che a lei piacciono i giocatori giocolieri, quelli che faticano a segnare ma che ubriacano col possesso palla. Dite pure che lei è pazza, a guardare così tanto le statistiche del possesso palla, l’importanza dei colpi di tacco, l’elogio del cucchiaio. Dite pure che ha vinto chi doveva.

 

Sdanghete Diego Armando Maradona mi hai fatto bene agli occhi. Tu e il tuo rosario stretto al punto che immaginavo il sangue. (cit.)

13 luglio 2010

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Lo sdilinquirsi della carta vetrata

 

[ Cosa ne sai della tachipirina per gli occhi?

ne ho tre scatole ancora nuove sul tavolino di vetro.
dove. dove.

(dove abbiamo conservato i termometri per le gambe, la febbre delle quattro e mezza di pomeriggio).

Tutto quel tempo perso a misurarsi le ossa.

Senza l’urgenza di pesare la parola cuore.

Se vai leggero ti porti dietro il rumore dei bicchieri rotti e il tremolio dei miei occhi.

Funziono sempre allo stesso modo, ci vedo anche di notte, ma sempre con tre secondi di ritardo.

Se vado leggera mi porto dietro due o tre monti vestiti vaporosi.

La parola rivincita è cancellata dal 1983, scritta e rigata con il pennarello rosso.

Lo senti, adesso, lo sdilinquirsi della carta vetrata?

( ti dicevo: a consolare gatti si ottengono graffi. a carezzare gatti si ottengono baci)

Seguendo la curva del fiume si ottiene un collo di cigno, l’ombra del fiume sembra nera ma è colorata di rosa.

sarai contento ora.

Lo senti, adesso, lo sdilinquirsi della carta vetrata?]

 

24 aprile 2010

Scese, evitando di guardarla a lungo, come si fa col sole, ma vedeva lei, come si vede il sole, anche senza guardare (Lev Nikolaevič Tolstoj, Anna Karenina)

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Cara onda radio,

ho iniziato a sentirti quando non ti sentiva nessuno. Adesso siamo tutti qui, chiusi nei nostri sterminati alloggi vacanze, circondati da vastissimi campi senza montagne. Ti parlano tutti in codice, onda radio. Tutti tranne me. Loro hanno paura. I giornali ci arrivano ogni lunedì mattina. Sono vecchi di mesi, ma cosa ti credi, sappiamo decifrare l’odore delle pagine. L’ho insegnato agli altri, onda radio. Hanno la data cambiata e puzzano di occidente. E’ così che ci dipingete, dunque. Questo pensate di noi bambine di Russia. Ci pensate invidiose dei vostri divani dell’ovest, dei vostri giocattoli di plastica dalle linee arrotondate, dei vostri scaldavivande con i topi e i paperi. Cara onda radio, ho iniziato a sentirti per prima e ora tutti a dirmi che è vietato ascoltarvi. Non capisco neanche le vostre parole, quei suoni di acca aspirata mi si sbriciolano in bocca e mi saltano in aria come biscotti lanciati contro il muro. Cara onda radio, ho detto a tutti che ho solo un radioricevitore. Il radioricevitore sembra più innocente, può solo ricevere e non mandare segnali. Ho detto a tutti che è color muffa, ricoperto da uno strato di unto. Non sanno niente, loro. Non sanno che il mio apparecchio è rosa, rosa come le caramelle degli americani. Quelle che si sono mangiati sulla luna, mentre fingevano di piantare bandiere mosse da una macchina che serve ad asciugare i capelli. Io sarò brava e non dirò niente a nessuno. Non parlerò dello studio televisivo nei pressi di San Pietroburgo, quello con il pavimento a forma di luna. Di come tutti volevano andare a lavorare in quello studio televisivo. Ci riuscì solo la mia zia Katrina, che veniva dalla scuola d’arte e pedagogia di Mosca. Lei che nelle feste ci costruiva cavalli alati di cartapesta grossi come le nostre camere da letto. Cara onda radio, mi fingerò mucca ebete. Non parlerò a nessuno del mio ricetrasmettitore scintillante e del sole che riesce a entrare dal cunicolo numero 77 beta. Ci avete insegnato tutto sull’amore, a noi bambine di Russia. Ci avete addestrate e mandate nel mondo, lo avete fatto a vostro rischio e pericolo. Sapevate della nostra forza e della nostra brutalità. Sapevate dell’effetto dei nostri occhi su tutti quei soldati, sapevate del nostro trucco che ci permetteva di  scambiare il bianco con il nero, a nostro piacimento. Sapevate dei nostri giochi di pupille, dello scambio sapiente fra le nostre pupille e  il nostro bianco. A scuola, ci avete fatto l’esempio dell’uovo. Dovete imparare a scambiare il rosso con il bianco, con un semplice gioco di mano. Non potevate prevedere tutto questo, non potevate prevedere la nostra bravura nell’imparare. Per questo avete provato a rinchiuderci. A rinchiuderci proprio a noi, noi che sappiamo andare a sbattere sotto i treni solo per poi risorgere e farvi vedere i nostri denti di smalto russo perfettamente allineati. Guardate, guardate! Noi bambine russe giochiamo con la tragedia, cadiamo e ci rompiamo le ossa ma le nostre gambe non si sbucciano mai. Ci avete impedito di fissarvi negli occhi,  di fissarvi nei vostri occhi gialli di mostri selvaggi, ma signori, non potevate prevederlo. Non potevate immaginare di perdere gli occhi. Cara onda radio, io e le altre sette bambine di russia non abbiamo età. La nostra pelle non è più capace di invecchiare, ma abbiamo nutrito i nostri tronchi e ci siamo tagliate a metà solo per contare i cerchi. Sono centinaia, onda radio. Siamo tutte vecchissime, più vecchie degli alberi, più vecchie della terra  che avete violentato per costruire le vostre case moderne. Siamo la vastità, nessuno ha più confini di noi. Confiniamo con chiunque, per prendere qualcosa a tutti. Cara onda radio, ci hanno accusato di mestizia, tutto questo senza avere il coraggio di guardare negli occhi la nostra verità.( ma non avete più occhi, non avete più occhi). Ci avete fatto giocare con il sangue, per farci capire il mondo. Poi ci avete messo delle corone più pesanti delle nostre teste , e infine, ci avete accusato di essere regine. Proprio voi, avete osato. Cara onda radio, ho comprato un quaderno nero e ci ho scritto sopra -radioaudizione circolare-. Pregherò per le parole che voi dell’occidente continuate a sbagliare, per il vostro modo di camminare a gambe aperte e per i dispetti modesti che continuate a fare al vostro povero corpo martoriato e alla vostra immaginaria intelligenza. Pregherò anche per le bugie che continuate a raccontarvi, insaziabili di niente. E infine scriverò lettere a tutti i vostri giornali presidenziali, la mia voce sarà bellissima, uscirà dalle radio dei vostri centri commerciali ancora da costruire e voi cadrete a terra, chiedendo perdono alla vostra madre. La vostra madre russia, che ha partorito me per insegnarvi non a vivere ma a brillare. Quel giorno il ceppo finnico si unirà a quello lituano, e i Cazari ci porteranno in dono le loro mantelle di seta. Io tornerò qui, nella mia vastità di pianura insolcabile, solo da qui posso guardare il mondo. Solo questa è la mia scelta. Voi avete subito la vostra nascita, ma io ho scelto il mio popolo e ho baciato le mie sorelle una a una, dando loro un nuovo nome. Cara onda radio, ti sembrerà troppo selenne e finto il mio linguaggio. Voi avete scambiato la semplicità con la piccolezza, la modestia con il vuoto, la sintesi con la banalità. Voi avete preso la mia lucidità e ci avete dato il falso nome di tristezza. La sentite dunque, questa esplosione di fiori dalle nostre narici, questa pioggia che non cade ma si lancia in aria, sollevando le nostre gonne?. Avete tentato di vendermi menzogna, lo avete fatto con la tenerezza di chi tenta la fuga disperata. Avete avuto paura di noi bambine di russia, del nostro essere infallibili. Ci avete messo i vestiti da cenerentola, per poi accorgervi dei brillanti incastrati nelle nostre scope di paglia. Il sottile piacere di sentirci strisciare, per poi sentirvi morti e svuotati, senza di noi. Bambine di russia da rincorrere e portare in cielo, pretenziose. Abbiamo imparato da rudolf hertz a generare onde e maree, e a distinguere la verità dal resto. Al posto del vostro petto vedo uno specchio, e proprio da lì, vedo passare la verità. Non si può mai mentire a una bambina di russia, ora lo sapete.

Cara onda radio, ho tutto questo rosa di plastica e fili sul tappeto di bisanzio. Le altre bambine di russia aspettano i canti dolci per la notte.

Tu metti una musica dal sapore di pietre trasparenti.
Dopo le tempeste e le burrasche dei boiari, vedono bocche di gatto che si aprono in sorrisi. Il loro romanov non giunge mai a cavallo, sempre a piedi.Ma giunge.

Siamo pur sempre regine (dalle mille teste).

20 marzo 2010

Nuovo linguaggio pittorico lascia il segno.

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Si può dire che sia il punto più alto mai toccato dal medium fumetto

Dave Eggers

 

I colori sono terribili, sembra di guardare una confezione di detersivo. Colori pallidi da morire, ripugnanti; roba da bottega equosolidale. Disgustoso. Davvero atroce.

Tom Paulin

3. Ruolo.

– Ci sono momenti – o piuttosto giorni, settimane, perfino anni e anni – nelle vite di certe persone, in cui si ha la sensazione palpabile che qualunque sforzo e attività sia priva di valore alcuno. Se magari ci svegliamo in un bel mattino di sole pieno di speranza, sentiamo rianimarsi in noi il fanciullino interiore, ma questo sentimento si disperde in fretta per colpa della menzogna mascherata dell’età adulta, che ci guarda male da dentro lo specchio del bagno. O magari qualcuno ci ha appena informato che dopotutto non siamo i compagni che pensavano fossimo, e ci viene chiesto per favore di non tornare a trovarli, non telefonare, non spartire più le stesse lenzuola, e di passare il prima possibile, per favore, a recuperare i nostri effetti personali. O magari il nonno per cui abbiamo sempre provato la forma più pura d’amore, che ci ha mostrato che la vita poteva diventare tollerabile e lieta se dicevamo la cosa giusta, è precipitato in uno stato dell’essere in cui nel corpo rimane il minimo indispensabile di vita per la propria conservazione biologica, trasformando magari o invertendo crudelmente quella personalità un tempo luminosa e generosa in un suo doppio crudele e risentito, che potrebbe perfino mancare di riconoscerci. O magari semplicemente uno si ritrova seduto svestito sulla poltrona del soggiorno in piena notte e, a sorpresa, viene catturato da una percezione orribile, corrosiva, di tutto ciò che lo ha portato fino a quel punto della sua vita,le speranze dell’infanzia, gli amici perduti, gli appuntamenti mancati, i cuori spezzati, e grida a chiunque possa ascoltarlo, implora che tutto finisca, invoca una soluzione, che il programma venga interrotto e non proceda anche solo un minuto in più.
In tempi come questi, e come altri non ancora descritti, molto di noi potrebbero andare in cerca di una forma di svago che fornisca sollazzo e distrazione. Magari visiteremo il cinema in fondo alla strada, o ci rivolgeremo alla scatola delle figure in movimento, o mangeremo una torta, sempre nella speranza di trovare qualcosa che ci solletichi o più preferibilmente, e molto più raramente, risuoni in noi a livello profondo, pari alla nostra situazione personale, che sia attraverso i particolari o per principi filosofici generali. In tutti i casi, il successo di una simile impresa lo si definisce a partire dalla qualità di sketch, sitcom o leccornie consumati, e se i suoi autori sono in grado di offrire empatia in queste faccende della vita o si limitano a trarne profitto. In questo secondo caso, è probabile che il tessuto dell’esperienza possa venire identificato come l’intenzione fondamentale dell’autore di distrarre o divertire; nel primo caso, invece, si ha un desiderio da parte dell’autore di far sì che gli altri stiano male quanto lui. In questo senso, la persona dotata di raziocinio dovrebbe concludere che, in generale, nell’arte la ricerca di empatia emotiva è essenzialmente un’impresa sconsiderata, che è meglio lasciare ai deboli di intelletto, o ai brutti, perché non hanno altro con cui tenersi occupati. Inoltre è ben spiacevole compiangersi e comunque tali “tempi sfortunati” alla fine passano, e se non passano per fortuna, almeno per il resto di noi, il suicidio è un’opzione percorribile.
Gran parte di coloro che hanno acquistato questo libro, però, sono probabilmente sicuri di sé sul piano sessuale, sono persone attraenti e prendono dalla vita ciò che vogliono: per loro il dolore è una mera astrazione, o male che vada una seccatura curabile con costose medicine. Per questo la loro speranza è di trovare qualcosa che li titilli o diverta nel breve periodo, che migliori il loro “look” per ciò che concerne la moda, o aumenti la loro “adessità”, e in questo caso hanno fatto certamente la scelta giusta perché la striscia a fumetti non spera in alcun modo di esprimere altro che i sentimenti più triviali e superficiali. Anzi, si può perfino evitare di leggere il libro, limitarsi a lasciarlo in mostra come simbolo della propria esuberanza giovanile, come una autovettura sportiva, o la musica del sud degli Stati Uniti suonata da un aristocratico.

Chris Ware, Jimmy Corrigan – Il Ragazzo più in gamba sulla Terra

 

* leggi nota a fondo pagina

 

 

Oh, Jimmy adesso a te ci penso io. Ti ho portato le ciambelle e le ho messe nel frigo. Ti ricordi? le devi togliere le ciambelle, se non le mangi. Altrimenti andranno a male e diventeranno verdi, con i bordi color tabacco, l’odore della papaia addosso, il liquido scivoloso nel buco. Ci vuole coraggio, Jimmy. A me mica mi freghi, Jimmy, lo sai. io ti vedo, ti vedo dentro. Oh quanta presunzione questa benedetta ragazza. Ti ricordi? quando eravamo quasi pronti per far l’amore ti dicevo di chiamare tua madre. Potevo dirti di non rispondere in caso di chiamata, invece io giocavo di anticipo, Jimmy chiama tua madre, chiama quella voce che viene dall’inferno, dai fondi di borsa in finta pelle piene di mentine, dalle buche dei divani sformati. Chiama. Solo dopo ci riuscivi, a far l’amore. Ti ho mai raccontato di quando il merlo indiano è morto?. Siamo andate in giardino, sotto la pioggia, tre donne con l’ombrello nero, a scavare una buca sotto all’albero più bello. Lo avevo messo in una cassetta da scarpe, con degli stracci colorati. Tre donne. Nonna, mamma, nipote. Tre streghe, diresti adesso. Jimmy. Ti sbagliavi, ti sei sempre sbagliato su di noi. Poi a me mica mi freghi, dovresti piacermi per via di certe parole?, per via di quei colori? Per via di quel tratto che ti disegna la testa con tre peli e riesce con pochi incisivi segni a farti mugolare e tornare bambino, a strapparti gli occhi dalla faccia e a farti gemere mentre sei sotto le mie lenzuola ( si sporcano ancora di sangue, dopo tutto questo tempo. Forse sono io, non so) e a trasformarti di colpo in un bambino capace di fare la cacca e di piantare semi?. Ci sono sempre i semi, te ne sei accorto? E gli alberi, e gli uccelli dalle piume azzurre che vengono dal nord. Dovresti piacermi, dimmi, come dovrebbero piacermi quei film indie pieni di musica indie e di trentenni  che sembrano ancora ventenni. Dovrebbero piacermi quei filmetti lì solo per via di un telefono a forma di panino o di un poster figo nella cameretta o per via di un paio di scarpe vintage- sì, maledetto, proprio uguali a quelle che cerco da una vita- e io dovrei dire  sì  a te, jimmy per una sorta di patetica identificazione. Ma non lo sai che io mi identifico solo nel film sirene, e solo per quel suo raccogliere tutte e dico tutte le mie ossessioni giovanili. Ok, lì mi arrendo. Che diavolo dire a winona, a una sorellina che vuole fare il record di apnea nella vasca da bagno, a una cameretta con le luci e i pesci, a un ragazzo che guida il pulmino e bacia  winona nelle scale di un convento. Ti rendi conto? Pure il convento. Tutte le mie perversioni, persino la vergine maria. Questo è chiedere e ottenere troppo. Comunque. Tu dovresti piacermi per quel tuo essere scomodo nella lettura, per quelle parole secche e i cambi improvvisi di ritmo, i toni color zabaglione, l’odore della colla da parati che sembra uscire dalle pagine, tutta quella solitudine bambina. Fanculo, jimmy. Ce l’hai fatta. Mi piaci, finisci con l’irritarmi ma sei un genio. Allora adesso io vengo lì e te lo dico. Sono seduta di fronte a te da sei mesi e non ti sei mai accorto di me neanche una volta! Addio. Non è vero, lo sai. tutti si accorgono di me. Mi serbano per anni, dicevi. Però quel biglietto nel tuo libro mi è piaciuto. Giallo con la scritta azzurra ( ancora), e il disegno di una scimmia-orso che alza la cornetta del telefono. Oh jimmy, nessuno che ti protegga dal tuo prossimo sbaglio e passo a vuoto. No, no. Nemmeno io. Ti faccio andare sul bordo, con la tua maglietta che arriva alla pancia e il saluto scritto con il bacon ( io sono più brava nei saluti del mattino). Quanti incubi abbiamo a disposizione? Quanti sogni premonitori ho ancora nel cassetto? Trecento? Venti? Centosettantuno? Al sogno premonitore numero cento io muoio. Ma muoio per finta, solo mi saltano le gambe, quelle che ora parlano così bene. Ti faccio vedere quello che dovevi essere. Così ti viene ancora da piangere e mi dici ancora- contenta? Sei contenta? Lurida strega?- e io faccio finta di essere soddisfatta della tua caduta in disgrazia, dei tuoi capelli caduti, di tua madre nel letto, deel cavallino di piombo che non ti è venuto bene. Così io faccio la parte della strega cattiva, e non mi faccio vedere mentre muoio. ( comunque adesso sono risorta, jimmy).

Gli sfugge di bocca una volgarità ben calibrata anche se a malapena udibile- negri- che per un istante gonfia d’orgoglio mr Corrigan di fronte allo sguardo immaginario della città. Che, in questa umida mattinata, scintilla dell’odore di bestiame, cioccolato e cavolo.

Lei è morta, per davvero. lo scorso febbraio. Ti parlai di quella bara troppo festosa e di quella cuscina in raso verde che proprio non mi piaceva. Anche i faretti intorno al viso ( ceri?) non mi garbavano. Tu non eri capace di starmi ad ascoltare, dovevi uscire con il nome di bambola. ( sì, sono ancora tremenda).

Accompagnando pensieri colpevoli di una caramella non autorizzata. Un movimento appena percettibile, avanti e indietro, una leggerissima pressione in avanti. Una spinta irresistibile della lingua. Improvvisamente. Una torsione inaspettata della carne e lo spigolo tagliente in bocca fluttua liberamente. Terrorizzato sputa sul cuscino il dente insanguinato. Mentre lo osserva. Pensando che i denti non dovrebbero uscire. La mia lingua non sta più a posto. Esce fuori, poi senza pensarci, getta il dente in cortile. Questa impulsiva distruzione della prova passa inosservata. Non avrei dovuto premerci contro. Non credevo che sarebbe uscito. Forse domani posso trovarlo. Uscirò quando non guarda nessuno. Lo terrò fermo con la lingua ogni volta che dovrò sorridere.

Il suono del respiro della nonna, lungo tutto il cammino, fino al cortile. Il rumore di zoccoli. Zoccoli. Zoccoli e una porta a vetri. Slap. Il rumore di un cavallo che sale una scala. L’indimenticabile conforto di dita screpolate che gli ravviano i capelli. Quel che basta a rovinare tutto è il rumore delle prime parole della giornata. Alzati dannato piccolo figlio di puttana.

jimmy la vedi la striscia del tempo nel mio quaderno di quinta elementare? L’anno zero è segnato in rosso e il medioevo è diviso in alto e basso. Quello che viene prima viene prima e quello che viene dopo è la naturale conseguenza di quello che viene prima. Dopo le tenebre viene la luce. L’illuminismo ce l’ho nel gozzo, come il merlo, quando provò a ingoiare una lampadina.  Lo vedi? Sembra facile, ogni azione è la conseguenza di un fatto, di un detto, di una foto, di uno sguardo. Come facciamo jimmy a districarci adesso? ogni cosa successa è solo una naturale conseguenza?

Ma, pensandoci su, il bambino comincia a immaginare che la fiammella del lumicino nella lente della lanterna cresca come un capello e proietti a oltranza fuori dalla finestra un flusso costante di immagini prevedibili puntato verso la luna e interrotto qua e là dall’orlo tagliente di una foglia o da un camino, un uccello, un dirigibile o un uomo che cade. Cade. Da un palazzo molto alto. Ogni fetta di quella salsiccia di luce rivela un evento precedente di quella serata. Eppure non arriva mai al momento esatto in cui il lumicino è stato acceso a inizio serata.

Ora vengo lì, jimmy, e ti racconto di come sono diventata forte. Di quel forte senza tigna e risentimento. quel forte dei vecchi saggi rincretiniti, con cento vite e diecimila rughe. Quella forza che ho visto solo nei bambini arrivati a scuola da paesi poverissimi. Quel forte che a te spaventa sempre, quel forte che non vuole il brodo, lo scacciapensieri, il rompicapo, la distrazione. Quel forte che allontana e gestisce, trova e non rompe, usa e non butta, sa e non dice. Poi, ti racconto, che mi volevo proprio così. Senza la rabbia della privazione ingiusta, della gola che si secca in rimproveri. Ti racconto che mi volevo proprio così, con il puntiglio e la bontà, il cristallo poco rassicurante e lo slancio, la lentezza bagnata e il coraggio nel salto. Gli spigoli dorati e il mio amato sarcasmo. Poi, ti racconto di come sono diventata più bella. Questo sì, è l’unico dispetto. E te lo tieni stretto.

Se non l’avessi visto con i miei occhi. Se provi a raccontarlo a qualcuno al giorno d’oggi pensano che te lo stai inventando. Ma all’epoca la gente la chiamava l’impresa più grande dell’umanità.

Poi, se ci guardo bene, ho il biglietto dell’apertura della grande esposizione. Qui, fra le mie mani. Qualcuno mi viene a prendere, lo vedo. Non mi lascia con le doppie punte al vento, in cima alla torre di ferro. Nonna, nonna, ti vedo. Ci penso io ai gatti, al portico bianco, a tuo figlio più scemo.

* questa è la nota a fondo pagina che devi leggere: tutto quello che appare scritto in corsivo è bello. e ovviamente non è mio. è opera di Chris Ware. tutto quello che non è scritto in corsivo è mio. e si vede.

24 febbraio 2010

Lecca lecca al caramello, carta di giornale finanziario invecchiato, camicia carta da zucchero, polvere del terzo cassetto, foglie, semafori, campanelli di sera, semafori all’alba.

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

L’ho detto io, l’ho detto io con le mie gambe. Lo sanno tutti che ora parlo con le gambe, ci entrano per prime nelle stanze e si stiracchiano la voce, così da far voltare le persone per lo sgomento di trovare la mia bocca serrata e la voce che danza sui muri. balla bene la mia voce, non è mica più del colore delle olive nelle scatoline di plastica, è voce scarlatta, con quelle solite striature oro che virano sempre all’azzurro. Sei nata azzurra tu, di acqua di fiume che scoppia in mare, mare freddo, di quelli con le correnti e non con le buche. Lo diceva sempre, lui.  Parlano le gambe, dicevo, poi, a ballare non sono mai stata brava. Anche se tutti giuravano il contrario. Sei anni di classica e un dito che quasi mi si stacca, i piedi snaturati dal raso delle punte, eppure la voce esce proprio da lì. Voi un giorno dovete fare finta di niente, e venirmi a spiare nel dormitorio. K. Si addormenta sempre tastandomi il braccio. Non la vuole la mia mano, vuole solo il braccio. Controlla lo spessore e lascia salire la sua mano fino al mio gomito, se ho la maglia con i polsini troppo stretti si arrabbia e piange. Al mattino, quando apro l’armadio, penso sempre all’ampiezza dei polsini. Scelgo i miei maglioni in base a questo. Lui litigava sempre per la cottura della polenta, la cucina gialla la vedevo gonfiarsi, dilatarsi di vapore e di madonne. Due donne e un uomo intorno a un paiolo di polenta. Mi garba soda, mi garba tenera. Adesso mia madre sbianca le alici nel sale. Il sale toglie il sangue, così le alici tornano lucenti e sanno di code di sirene. Voi potete addentare le alici di mia madre e pensare alle sirene, pensare di schiacciare con i denti le code delle sirene e poi farvi venire i dubbi sul contenuto di queste code. Pensare di trovarci dentro delle gambe di donna, imbustate nella coda come i piselli, oppure di trovarci gelatina dura, come mangiare le orecchie delle caramelle a forma di orsetto. Voi mica distinguete gli occhi degli orsi dal fegato, quando arrivate ad assaggiare la pancia, mica vi fate degli scrupoli. Mica state lì a immaginare il fegato verde dell’orso e i nervi delle orecchie. Voi sentite solo il gusto arancia della gommosa. Fine. E fate bene, voi.

Dicevo, mi si sono stesi i nervi, e ci ho messo dei mesi per questo duro lavoro. Prendevo i nervi uno per uno, e avevano l’aspetto dei ramoscelli di ciliegio, nel senso che ogni tanto ci vedevo un fiore rosa, in punta. Quel tipo di petalo che non può essere neanche guardato da vicino, visto che basta un piccolo fiato uscito dalla bocca per farlo staccare dal ramo. Prendevo i nervi uno a uno e ci mettevo un foglio di giornale sopra, poi prendevo il ferro da stiro spento e lo passavo sul foglio. In principio i fiori andavano via, poi  spuntavano nuovi, e questa volta erano fiori di carne. Non vado più sui tetti di notte, ad avvistare gli alci. Arrivano loro, carichi di semafori agganciati al collo. Arrivano al mattino, e io posso solo pensare alle notti degli alci- come una buffa sottorazza di fantasia da rammentare solo da ubriaca- notti passate in curiose e divertenti corse fra i caselli autostradali, corse che si trasformano in voli, fino a impigliarsi nei semafori verdi, arancioni, rossi, viola,  fermi intermittenti. di notte non servono semafori. Corse divertenti di quel tipo di risata che vi viene nei parcheggi dei supermercati, quando siete fra amici e non trovate la macchina, e vi scappa la pipì e non volete andare a casa, volete solo prolungare la serata e aspettare la fine del mondo. lì, nel parcheggio di un centro commerciale. Solo così posso spiegarmi tutti quei semafori appesi al collo degli alci.

Non  mi lecco più le ferite, non lecco mai quello che non trovo.

Quello lo ricorderai come l’inverno dei palloni gonfiabili appesi al muro, quello lo ricorderai come l’inverno in cui ti sei trasformata in maestra di ginnastica ( oh, ma ci credi? ma tu pensa), lo ricorderai come l’inverno dei fiori di vincent. L’inverno della muta, dei ritorni, dei calzini.

Dei sentimenti che non sono immutabili stalattiti, ambulanze, coltellini, processione di soldatini, sciroppo gusto orgoglio, spigolo di marmo, barba di suora, perdita di urina nelle mutandine di pizzo. 

15 febbraio 2010

paesaggio di lamiera e latte con punta di diamante

dicembre 7, 2011 § Lascia un commento

Quel che un tempo era considerato da tutti pura decorazione per balconi cittadini, venne in seguito convertito a trito contenuto in sacchetti profuma biancheria. Vennero scelti in prevalenza fiori gialli, della qualità più  delicata. Alcuni, iniziarono ad arricchite le loro insalate, dando il via a una fiorente ala del mercato dedita al consumo di buste di fiori per contorni di carne. Le buste trasparenti, iniziarono a vendersi nel magazzino di Ben, accanto al sapone minerale per ascelle pulite senza un goccio d’acqua. Si noti la prevalenza di nomi brevi e secchi, quasi soprannomi, per indicare uno stato di vicinanza e di amicizia fra tutta la popolazione. Niente di più falso e rassicurante al tempo stesso. Proprio accanto al grande magazzino si è soliti notare il piccolo osservatorio per eventi estremi e figure extrasensoriali. Trattasi di edificio azzurrino, interamente ricoperto di materiale che si potrebbe chiamare tranquillamente amianto, ma che per motivi ignoti viene chiamato con un nome più oscuro ed esotico, che tutti comunque sembrano non ricordare. Il piccolo osservatorio per eventi estremi, sembra non subire danni causati dal vento che –perenne e incestuoso- colpisce questa zona con grande lavorio fantasioso rovesciando macchine e contribuendo a sculture metalliche su quattro ruote, incastri orgiastici fra vetture lasciate al bacio della ruggine per intere generazioni, fino ad essere inghiottite dalla melma del fiume. Una sola composizione di auto famigliari scoperchiate dal vento, resiste maestosa, al centro della rotonda cittadina. A questa composizione ferrosa è stato dato valore di opera arte, e tutta la cittadinanza riceve un compenso giornaliero statale. Solo sul retro, il piccolo osservatorio per eventi estremi sembra subire i danni della convivenza con i cittadini. Trattasi di scritte di varia natura adolescente. Una vastità complessa di cuori fatti a pennarello e trafitti, nomi cancellati con il tempo, promesse mai mantenute, nomi felicemente sostituiti con la velocità di una pallina da flipper. Preme ricordare ai più curiosi di mente le motivazioni che spinsero la comunità alla nascita del piccolo osservatorio. Eventi che videro la luce nel lontano 1891, in seguito ad avvistamenti di pozze di latte condensato sorte spontaneamente nei campi, lepri dagli occhi di diamante, ombre sui muri dalle dimensioni spropositate, farfalle dalle ali di carne di maiale. Quando l’ammiratore abbracciò Olga, pensò subito alla perfezione della sua nuca, e immaginò di premere il dito proprio nell’osso del collo, con estrema delicatezza. Immaginò di aver già giocato con lei, nell’infanzia. Nel suo sogno, lei non era di quelle bambine crudeli e bellissime. Ogni tanto cadeva goffamente, alla corsa dei sacchi. Questo pensiero lo rendeva più sicuro. I lettori più scaltri, immagineranno ora la trasparenza violetta delle mutandine di Olga.

Ricorderete tutti del mio essere fiore. Giallo. potete trovarmi nel terzo cassetto, quello dei calzini. Profumabiancheria.

30 novembre 2009

paesaggio di fiore nuovo e giallo

dicembre 7, 2011 § 2 commenti

Cosa dire, dunque, dei maestosi mazzi di fiori gialli portati ogni giorno davanti alla finestra della signora Olga?. Non si potrà di certo credere al senso di colpa delle generazioni precedenti, al sangue unto degli invasori lasciato nella carta gialla assorbente, proprio davanti al cancello in ferro verde del magazzino di Ben. Un sangue di pomodoro zuccherino, non certo quel vivissimo sangue di carne gocciolato sul manto innocente della neve italiana. Lo sanno tutti, lo sapete anche voi, nei vostri maglioni misto lana scoloriti dai monitor. In questo paese di fili elettrici non ci sono mai stati invasori. Solo finti indiani  mascherati e incastrati in riserve, diventati polpette da servire con piselli grossi come noci.

Si pensi allora al sentimento più innocente e antico, alla  sconsacrata voglia di abbracciare la camicetta a fiori di Olga, e al suo contenuto nervoso. Avete visto centinaia di Olga da queste parti. Tutte vestite di sintetico, badanti per signori, ragazze da rivoluzione, qualche strega dai lunghi capelli. Non ci saranno descrizioni minuziose per questa nuova Olga e per il suo vicinato. Basti pensare a letti di ferro e lampioni incastrati in cielo, quasi a impedire alle stelle di cadere o di suicidarsi. Come una rete da circo, per salvare l’artista più in alto. O pensare al rosa più rosa, quasi viola con tagli di arancio ad avvolgere il retro del supermercato all’ora di chiusura. Basterà tutto questo per vedere Olga camminare per la prima volta nel giardino e fare merenda con i formaggini dal nome francese, fra l’altro un nome sbagliato. Scritto male. Sarà facile scorgere gli stivali pneumatici del vicino di casa e con un poco di attenzione, anche la salsa di buccia di cipolla usata per fare il colore giallo. I migliori di voi, vedranno anche Olga nel mucchio del ballo di fine anno, con un vestito bianco da sposa finta, le treccine ai lati del viso e l’apparecchio per i denti. La ritroverete Olga, comprare una pomata per le bruciature e ridere sulle scale dei Finns, con un libro di puericultura sotto il braccio destro e dei calzettoni a righe. Sarà quasi impossibile non ammirare la scalinata bianca dei Finns. La ricorderete per anni, per la sua insolita morbidezza di panna montata toccata appena dalla luce, quasi ad aspettarsi di trovare ciambelle ricoperte di glassa rosa sulla veranda. Penserete quindi di essere in America, ma ben presto vi renderete conto di avere sbagliato.

Ma chi sono io per parlarvi in questo modo? Io sono un fiore. Giallo.
E la mia nuova storia è appena cominciata.

29 novembre 2009